Cenni di Ortografia Siciliana

di Nino Barone e Giuseppe Gerbino

Lingua o Dialetto? Quando si parla di dialetto, inevitabilmente bisogna parlare anche della lingua ufficiale cui esso si affaccia. Le differenze sono soprattutto politiche e sociali; la prima rappresenta il paese nella sua unità politica appunto, utilizzata per documenti, leggi ecc.; la seconda, cioè il dialetto rappresenta una unità geografica e culturale circoscritta, come può essere una regione, una provincia o addirittura un paese, quindi limitata nell’estensione, ma non per questo meno ricca di storia e di valore. Ciò che caratterizza a nostro parere la differenza tra dialetto e lingua ufficiale, è il prestigio, la considerazione del dialetto che hanno i suoi parlanti stessi. Ed è qui che vorremmo insistere e sensibilizzare i siciliani. Purtroppo noi siamo i primi a non valorizzare la nostra lingua, considerandola spesso sinonimo di ignoranza e di ghettizzazione non tenendo conto della storia di cui essa è ricca. Abbiamo, altresì, notato una frattura nel dialogo tra le persone anziane (custodi del sapere, delle tradizioni, della cultura) e i giovani che, senza averne colpa, si ritrovano indifferenti verso la lingua dei loro padri. Si hanno notizie della lingua siciliana a partire dal 1230, quando una colta èlite di burocrati e funzionari alla corte di Federico II, si diede a coltivare l’arte della poesia volgare, che ebbe talmente successo che lo stesso Dante Alighieri, definì i poeti siciliani come i pionieri della poetica volgare, insomma, quella che poi diede origine alla lingua italiana. Tra questi ricordiamo Jacopo da Lentini, Stefano Protonotaro, Pier Della Vigna. É impossibile risalire a quale fosse la vera forma grafica di quel periodo perché tutte le opere sono state tradotte dai copisti toscani. Abbiamo solo qualche brano del Protonotaro che è rimasto quasi integro. Tuttavia, siamo a conoscenza che i poeti della scuola poetica siciliana, oltre ad essere tutte persone colte, fossero dei perfezionisti della metrica e della rima e questo lascia intuire che la lingua siciliana avesse una sua forma ben definita, non lasciata al caso. La lingua siciliana, presenta più fonemi di quanti non ne possieda la lingua italiana, perché ogni popolazione ha lasciato una traccia della sua presenza. L’influenza di un popolo più che di un altro, in una determinata zona, ha fatto sì che si creassero tutte quelle differenze fonetiche che si riscontrano anche fra paesi che distano solo pochi km ma, per quanto riguarda l’aspetto ortografico – crediamo – si debba avere una certa uniformità. Noi non diciamo di rinunciare a tutti quei termini peculiari di ogni zona, di ogni parlata, di ogni paese, che arricchiscono il nostro linguaggio, ma proponiamo di scrivere questi termini nel modo corretto. Perché ognuno scrive a modo suo? Perché purtroppo la lingua siciliana noi l’abbiamo imparata solo oralmente, ad orecchio, abbiamo imparato certi termini storpiati negli anni, senza curarci di quale fosse né il modo corretto di scriverli, né quello di pronunciarli. Insomma, è indispensabile l’ORTOEPIA, cioè lo studio della pronuncia che risolverebbe, per esempio, il fatto delle parole omofone, cioè che hanno lo stesso suono, ma non lo stesso significato e purtroppo in molte poesie si riscontrano spesso questi errori: minni pigghiu e minni portu quantu vogghiu; sarebbe esatto scrivere: mi ni pigghiu e mi ni portu quantu vogghiu. Un altro errore in cui ci si imbatte, sono le doppie consonanti all’inizio di certe parole che sono doppie solo per un discorso di pronuncia: a rroma, ppi ttia, ppi mmia, ecc. Anche nella lingua italiana esistono queste consonanti che a volte hanno un suono dolce, altre un suono più forte ma non per questo si raddoppiano: per terra c’era della cera; questa piuma è più lunga dell’altra. Un altro punto importante riguarda l’APOFONIA, cioè il cambiamento di consonanti che ci fa scrivere in maniera quasi incomprensibile: mi voi riri picchì riri ri lu me riri? Li cosi chi mi voi rari su’ troppu rari, nun su’ cosi ri rari. Es. corretto: mi voi diri picchì ridi di lu me diri? Li cosi chi mi voi dari su’ troppu rari, nun su’ cosi di dari. Altra nota dolente riguarda l’ASSIMILAZIONE, cioè quando nel corpo di una parola, spesso, una consonante diventa simile a quella che l’ affianca: suddu per surdu, puppa per purpa, scattu per scartu, cuccu per curcu, pattu per partu, ecc. Un altro neo è rappresentato dalla FUSIONE cioè dall’unione di due parole che dovrebbero essere separate: ‘ncasa per ‘n casa (‘ncasa tutto unito deriva da ‘ncasari e cioè cacciar con forza una cosa dentro un’altra) ‘nterra per ‘n terra, ‘npedi o ‘mpedi (forma errata) per ‘n pedi, ecc. Altro argomento scottante riguarda la DILATAZIONE (da evitare in quanto prettamente vernacolare) cioè l’aggiunta di una vocale all’interno di una parola: viecchiu per vecchiu, miegghiu per megghiu, fietu per fetu, bieddu per beddu.