Clericalismo e Laicismo: Una chiesa in perenne sinodalità

di Salvatore Agueci


«Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente» (Mt 28, 19-20). Sono le parole con cui Gesù manda i suoi undici discepoli nel mondo e affida loro il compito di essere missionari e di partecipare a tutti la lieta novella che Gesù è il salvatore.

Da questo compito di annuncio a tutti gli uomini di buona volontà ebbe inizio quello che si è andato sviluppando all’interno della Chiesa fino a raggiungere, con i loro successori, un’autorità assoluta da essere contrapposta e osteggiata nei secoli. Da qui nasce l’anticlericalismo e si rafforza con il potere temporale della chiesa. Si esprime dal XVI secolo con il protestantesimo, si rassoda con il potere dei Gesuiti fino alla loro soppressione (avvenuta ufficialmente nel 1773) e poi nel XIX secolo, in seguito al dogma dell’infallibilità del papa, sotto Pio IX. La contrapposizione tra visione clericale e laicale sfocerà in una teoria che si rifà al clericalismo e al laicismo, il primo inteso come forma deviante di concepire il clero, ossequio eccessivo, tendente a riconoscergli una superiorità morale, il secondo come atteggiamento ideologico e pratico che si oppone all’ingerenza del clero nella vita civile e a ogni forma di clericalismo e di confessionalismo.

Se da una parte abbiamo un attacco al clericalismo, dall’altra esso si rafforza al suo interno come potere gerarchico e totale comunione e sottomissione al Papa, accentuando la differenza con il laicato, come classe subordinata alla gerarchia. C’è voluto il Vaticano II per riportare teoricamente la presenza sia del clero che dei laici su un piano paritetico definendo la Chiesa tutta “Popolo di Dio” (Lumen gentium, cap. II): tutti sono battezzati, ognuno partecipa al suo sacerdozio con doni, carismi e ministeri diversi, i laici con quello comune e il clero con quello ordinato. E nella Presbyterorum Ordinis i presbiteri sono esortati a curare «Soprattutto che i singoli fedeli siano guidati nello Spirito Santo a vivere secondo il Vangelo la loro propria vocazione, a praticare una carità sincera ed operosa e ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati» (6).

Due osservazioni: Oggi il presbiterato e il diaconato femminili sembrano come una richiesta per il rafforzamento del clericalismo stesso. «Temo la soluzione del “machismo in gonnella” – dice Papa Francesco – perché in realtà la donna ha una struttura differente dall’uomo». (Intervista al direttore di “Civiltà Cattolica” padre Antonio Spadaro).

Si è confuso nella storia il rapporto tra clericale (o gerarchia) e cattolico: non sono sinonimi, sono due concetti che si possono integrare ma hanno una loro valenza terminologica e prassistica. Il solo popolo di Dio è universale (LG 13-14): «Tutti gli uomini sono chiamati a formare il Popolo di Dio. Perciò (…) pur restando uno e unico si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli» (LG 13). Il Popolo di Dio ha il compito d’individuare il messaggio di Dio in ordine ai tempi e calarlo nella storia e negli ambiti propri.

Eppure si è scompaginato il concetto tra Chiesa e gerarchia come se fosse un tutt’uno, separando e accentuando la diversità di ruoli tra clero e laici, subordinandoli questi a quello; ma non c’è secondarietà, solo una divisione dei compiti, poiché unico è lo Spirito. In ciò la Chiesa non sta realizzando il modello proposto da Cristo, e deve trovarsi continuamente in atteggiamento di riforma al suo interno per un adeguamento alla conversione.

La gerarchia ha una funzione ben definita che è quello di condurre il gregge, i battezzati, all’ovile della salvezza e questo come servizio e non come potere. San Pietro esorta: «Non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge» (1Pt 5, 3). «Sia dunque impegno d’amore pascere il gregge del Signore» dice Sant’Agostino (Commento al Vangelo di san Giovanni, 123,5); questa è la suprema norma di condotta dei ministri di Dio, un amore incondizionato, come quello del Buon Pastore, pieno di gioia, aperto a tutti, attento ai vicini e premuroso verso i lontani (cfr. S. Agostino, Discorso 340, 1; Discorso 46, 15).