Il coraggio della nudità: Progettare un nuovo umanesimo

di Salvatore Agueci

   Ho una rabbia che mi tormenta dentro. Ne conosco pure la causa, ma non posso estrinsecarla perché sono impedito da numerosi fattori esterni. Vorrei provare a fare un’analisi, ma non è tutto quello che vorrei e sarei in grado di dire: ancora una volta se lo dicessi, avrei la maggior parte degli uomini contro. Provo a balbettare qualcosa.

   La prima riflessione che desidererei fare, guardando come si comportano gli uomini, a qualsiasi organizzazione appartengano, è l’incoerenza. Tutti affermiamo di avere sani principi ispiratori, pilastri a cui appoggiarci, ma tutto, o quasi, rimane semplice teoria: lo specchio è frantumato e chi vi si riflette non traspare nitido ma assume tante sfaccettature quanti sono i frammenti. Ciò dice che il nostro operato è difforme da quello che pensiamo ed esterniamo a parole. «Negli uomini – afferma Guido Morselli -, non esiste veramente che una sola coerenza: quella delle loro contraddizioni».

   Essere coerenti vuol dire essere integri, corretti, con noi stessi e con il mondo che ci circonda. Vuol dire mettersi a nudo, avere un solo padrone e giudice: la coscienza. Spesso, invece, preferiamo l’apparenza rispetto all’identità.

   Non faccio differenza di categorie di persone. Tutti: uomini comuni, politici, credenti, siamo attraversati da questa doppia personalità che assumiamo in circostanze ben definite e, come una maschera che portiamo con noi, la lasciamo cadere sul viso al momento che riteniamo a noi favorevole.

   Anche il mondo cattolico, nessuno escluso, a partire dagli ecclesiastici fino all’ultimo battezzato, siamo attraversati da questo male che diventa peccato imperdonabile perché, agli occhi di chi ci guarda e si aspetta da noi qualcosa, non è conforme all’insegnamento di Cristo. Ghandi asseriva di non avvicinarsi al Cristianesimo non per Cristo che ammirava, ma a causa dei cristiani, perché incoerenti. E asseriva che «Credere in qualcosa e non viverla, è disonestà».

   Conseguenza della prima è l’ipocrisia. Essa è quell’atteggiamento che attiene alla sfera morale, relazionale, sociale e affettiva, di una persona che volontariamente finge, attraverso il proprio comportamento o vizio, di avere, in conformità alle proprie credenze, valori o quant’altro. Queste formalità di vita non aiutano l’uomo a fare emergere la verità, in qualsiasi latitudine, ma a camuffarla. Sono “sepolcri imbiancati”, come li definisce Cristo, o “lupi ammantati da agnelli”.

L’uomo di oggi usa questo atteggiamento per raggiungere traguardi di primo piano, a scapito del mondo che lo circonda e degli altri: sono individui che si sono create le loro divinità di argilla che si sgretolano a un nonnulla. Questa prassi di vita, apparentemente vincente, porta molto lontano. Asseriva Buddha che «L’unico vero fallimento nella vita è non agire in coerenza con i propri valori».

   Un’altra compagna di viaggio è la falsa umiltà. Non la vera modestia che riconosce, nella verità, quello che si è. L’umiltà ammette di essere sempre “poveri” e bisognosi di qualcosa, dalla cultura alla perfezione che si vuole sempre raggiungere, riconoscendo di non avere mai le potenzialità personali. L’umiltà mi colloca al posto giusto come un puzzle, adatto a ricoprire un solo ruolo: quello assegnatomi. La falsa umiltà serve, ancora una volta, ad apparire agli altri per giustificare le mie comodità e gli interessi, spesso loschi, e per fare carriera.

   Potrei continuare su questa scia ma vado ad alcune proposte che mi sembrano conformi a quanto detto.

   La prima strada da percorrere è quella dell’analisi della coscienza: fermarsi, scavare, conoscersi e tirar fuori. Bisogna ripristinare lo specchio per guardarmi quello che sono: interiormente e nel mio comportamento. Scoprire la mia identità profonda per sapere cosa voglio, verso dove desidero andare, di quali mezzi debba servirmi… Nella scoperta di me stesso scopro anche chi è l’altro, visto come parte integrante del mio esistere. Dal connubio tra me e l’altro sento l’esigenza di confrontarmi, di dialogare, di accordarmi. Ciò comporta l’incontro, attraverso un “sinodo”, in cui ognuno parli liberamente e tiri fuori il “vecchio” ed il “nuovo” che c’è in noi, per fare emergere tutti gli aspetti: difficoltà, sofferenze, progettualità. Messe assieme queste intuizioni, poi, tracciare un cammino da percorrere nella sincerità, nella libertà, nella carità.

   Tutto in vista di un rinnovamento. Rinnovare vuol dire rigenerarci per un miglioramento personale, della società e degli organismi nei quali ci muoviamo. Scoprire il dinamismo e operare in vista di un apporto nuovo, ci rende veri individui e ci proietta verso un futuro anch’esso in continuo divenire poiché diretto ai “cieli nuovi e terra nuova”. Solo allora possiamo dire di essere persone vere, cristiani autentici per cui è valsa la pena esistere!

Erice lì, 04 dicembre 2020