In “Alitu di Diu” una poetica di alto valore spirituale

di Cinzia Pitingaro

Cinzia Pitingaro

A partire dal titolo “Alitu di Diu”, leggendo la nuova silloge del poeta Nino Barone, ci si sente immersi in una dimensione poetica di alto valore spirituale. Il forte amore per la propria terra, per la propria donna, per la famiglia e per la poesia stessa, che permea l’intero libro, conferisce al poeta la consapevolezza che la sua è un’arte ispirata. La Musa ad un certo punto, “spirtusa” la sua “armuzza” e lui, sentendosi “nta na favula”, avvertendo in sé la forza della vita (mi sentu forti e vivu), impugna la penna e fa scivolare le sue emozioni su un foglio bianco (pigghiu pinna e subitu/davanzi a un fogghiu scrivu).
La consapevolezza di saper tradurre in versi l’afflato dell’anima gli fa apprezzare ancor di più la vita stessa (Quannu capivi d’essiri un pueta/la vita mia si fici chiù mpurtanti,/scrivennu dava vuci all’arma squeta,/la
Musa mi truvava di custanti), rendendolo al tempo stesso umile e riconoscente verso qualcuno o qualcosa che va al di là del suo talento, della sua maestria, al punto che sente il dovere e la necessità di benedire i suoi scritti. Questi, dopo essere stati benedetti, si elevano al punto che qualcuno li definisce “poesia” (Appena cumplitava lu me scrittu/l’accarizzava e lu binidicia,/na vota cumplitatu e binidittu,/qualcunu lu chiamava puisia).
Ed è poesia la sua, nonostante egli sia convinto di soddisfare, di dare solo voce ad un bisogno che arriva prepotentemente dall’anima, non di costruire qualcosa di importante: “Scrivu…sapennu di nun fabbricari nenti./lu fazzu sulu p’un bisognu stortu/c’arriva a la ntrasatta priputenti”.
Ed è poesia il suo delicato modo di porsi nei confronti della donna che vede come la forma d’arte più poetica che Dio ha donato all’uomo. Scrive, infatti, “La fimmina è na Viniri,/surgenti di buntà:/è l’Arti chiù
puetica/chi Diu ni desi cca!/e si intristisce constatando che, purtroppo, alcuni, per brama o per follia, non ne apprezzino il valore: “Ma tanti voti l’ómini,/pi brama o pi fuddìa,/nun sentinu, nun sentinu/ddi noti di puisia!/.
Bellissima quest’ultima espressione, segno della grande sensibilità, della nobiltà d’animo del poeta!
Tra tutte le donne, giustamente, è sua moglie, “la rigina di li ciuriteddi”, la donna “di lu so disìu”. È lei che lo ispira e l’amore che lo lega a lei è un sentimento che non conosce tempo, che diventa via via più forte e, come un fiore, continua ad emanare il suo profumo (mentri lu tempu tràstulu, latruni, si va purtannu tempu, nta lu cori/resta l’oduri di lu nostru amari). Scrive Nino Barone: “Pi tia nun trovu mancu chiù palori/capaci di
mustràriti lu beni/chi smisuratu crisci dintra a mia”. Un amore grande, quindi, che nel tempo è cresciuto e ha dato i suoi frutti, due splendi figli ai quali il poeta dedica versi colmi d’affetto. E l’amore, che si estrinseca anche attraverso i versi dedicati al mare, al suo paese, alla sua terra che gli ha dato tanto, il fil rouge, quindi, che lega tutte liriche di questa raccolta, si tinge, a volte, di nostalgia.
Il poeta sente di essere un figlio speciale della sua terra, “ddu figghiu spiciali/chi si nutri di celu e d’odura” e che vive anche dei dolci ricordi del passato gelosamente custodito nel cuore.
Gli tornano in mente i giochi d’infanzia sulla strada che gli ha insegnato la vita, su quell’ asfalto che gli ha insegnato a cadere, “l’asfartu che era vita, patri e scola”.
Quanto amore trapela da ogni verso! Un amore puro espresso nell’ elegante lingua dei padri, una lingua viva, fluida che ben si adatta al cambiamento dei tempi e che si caratterizza per la grande varietà e vivacità espressiva. Una lingua, non un dialetto. Dice, infatti, Nino Barone: “Ammàtula si sforzanu napocu/a diri ca si tratta d’un dialettu,/è comu diri a n’aquila acidduzzu.” Una lingua, quindi, il Siciliano, curata nell’espressione e nella forma, esaltata dall’uso sapiente della metrica che, come il poeta ricorda, “per i pueti è” o, aggiungiamo noi, dovrebbe essere “liggi”, anzi, “vancelu”. È la metrica che conferisce ritmo e musicalità al verso, impreziosita, in questo caso, dall’elegante forma del sonetto.
Una poesia raffinata, dunque, nella forma e nei temi, che coinvolge il lettore e gli parla anche e, forse, soprattutto, attraverso gli spazi vuoti tra le parole e tra le strofe. Nino Barone stesso afferma: “Lu versu meu chiù vìvulu/è chiddu mai liggiutu/sippuru astrattu e misticu/lu so valuri è nfutu/” e invita i suoi lettori ad andare, leggendo, sempre oltre le parole: “Perciò s’aviti a lèggiri/versi, pueti e ditti,/nun vi firmati ammàtula/ a li paroli scritti.”
È nel silenzio, nel non detto che si coglie la voce dell’anima ed è il silenzio stesso che diventa poesia. Cos’è, dunque, la poesia? Non una serie di versi disposti a caso, ma canto, amore, carezza, musica… Se dai versi e dagli spazi bianchi tra questi e le parole, dunque, non trapela tutto ciò, non si può certamente parlare di poesia (Siddu chistu nun traspari/spissu è sulu miludia:/ti poi sprèmiri, satari/ma su’ versi e no puisia.)
Dice ancora Nino Barone: “Nun chiamàtila mastrìa/si palori nculunnati/nun svapùranu magìa/ma su’ versi ammunziddati”. Ecco la chiave di tutto: la magia.
È questa che, “evaporando”, svapurannu, dalle parole, fa vibrare il silenzio, quel silenzio che avvolge le cose e in cui si avverte forte l’alitu di Diu.

Nino Barone