Processione dei Misteri: Don Vincenzo rimase di stucco!

di Nino Barone

“Una processione che move a festa cittadini e forestieri”. Lo scrisse nel suo diario il canonico Fortunato Mondello agli inizi del secolo scorso. Il compianto Gino Lipari nel 1993, in un libro che curò per conto dei Metallurgici, intitolò uno dei capitoli “La grande festa” in riferimento, appunto, al Venerdì Santo trapanese. Persino Gigi Barraco, tipico personaggio della processione, quando andava per le strade a chiedere le offerte per il gruppo dei Barbieri e Parrucchieri, di cui è tuttora console onorario, gridava inconsapevolmente “’a festa d”i Misteri” (la festa dei Misteri/mestieri). È consuetudine tra i consoli dei vari ceti scambiarsi gli auguri prima che i sacri gruppi comincino l’uscita. L’emozione che trapela è la stessa che si ha per la nascita di un figlio con una differenza sostanziale: quel giorno si celebra la morte, ma non una morte qualunque. Il personaggio dentro quell’urna risponde al nome di Gesù Cristo. Già alle prime luci del mattino si respira l’aria della festa. I consoli si rivedono ancora una volta all’interno della Chiesa del Purgatorio per ammirare gli addobbi floreali realizzati nel corso della notte. Dopo i dovuti commenti si recano al primo bar disponibile per una sana colazione. Di solito la spesa grava sulla tasca del console giunto per ultimo all’appuntamento costretto a fare bancomat per non rischiare il linciaggio. Nell’ambiente dei Misteri, a tal riguardo, ci sono leggi severissime. Nel frattempo spediti venditori ambulanti di kàlia e semenza, con appositi carretti a due ruote adornati da palloncini gonfiabili multiforme, si collocano nelle adiacenze dell’intero percorso. Le tristi note di una marcia funebre fuoriescono da una finestra al secondo piano di un edificio. Un musicante, evidentemente, sta già riscaldando il labbro. Il barbiere di via Nunzio Nasi non ha mai visto così tanta gente in una sola mattinata, tutti chiedono una frizione ai capelli. La festa s’avvicina e tutto deve essere ordinato e dignitoso. Le possibilità di ricevere primi piani da parte dell’emittente televisiva sono parecchie e in questi casi rifarsi il look favorisce notevolmente l’opportunità di essere ripresi. Alle 14 comincia lo spettacolo e Trapani vive il suo festino. Devozione popolare ossia fervore religioso in cammino che mostra le proprie fragilità e l’assoluta dipendenza da un Dio al quale si rivolge in cambio di protezione e garanzie. Un modo di vivere la fede con la gioia e la spontaneità di un bambino attraverso simboli e gesti consolidati nei secoli. Un popolo che riesce comunque a trarre gocce di speranza da quella morte che celebra festosamente in attesa di una resurrezione certa. Talmente certa da non sentire nemmeno il bisogno di celebrare la Pasqua fino al ripristino di un rito: la processione del Risorto voluta fortemente dal vescovo Miccichè. L’ennesima vara portata in spalla dagli stessi protagonisti, l’ennesima processione che riesce ad attrarre tutti indistintamente. Una mossa azzeccata per guidare il popolo verso il grande mistero della resurrezione. Un popolo devoto che getta i suoi primi passi, che deve poter toccare con le mani la presenza di Dio attraverso un’iconografia variegata verso la quale si rispecchia e si immedesima. Un popolo che deve poter scegliere in piena libertà il suo Cristo, la sua Madonna, il Santo che più lo ispira. A tal proposito cito l’emblematico caso che ebbe come protagonista un’anziana donna, tradizionalmente legata al gruppo del Trasporto al Sepolcro affidato ai Salinai. Al momento della vestizione si portò tra le braccia la statua del Cristo e rivolgendosi all’avvocato Mario Serraino gridò: avvucatu meu iu sulu a stu Signuri criu (avvocato mio io solo a questo Signore credo) – e mentre puntava l’indice verso tutti gli altri Cristi esclamava: pirchì a tutti chisti nun ci criu a nuddu! (perché a tutti questi altri non ci credo!). Un aneddoto raccontato spesso da Serraino quando, in talune circostanze, era chiamato a spiegare il vero significato di devozione popolare. Un altro fatto simile avvenne qualche anno fa durante la preparazione della prima Scinnuta. Quattro gruppi scultorei collocati in modo anomalo coprivano in buona parte l’altare centrale. L’effetto muro tra il celebrante e i fedeli avrebbe avuto risvolti imbarazzanti. Don Vincenzo Basiricò, rettore della chiesa, propose di spostare i gruppi per consentire al vescovo una celebrazione dignitosa ma soprattutto una buona visione d’insieme. Uno dei consoli presenti esclamò: lu viscuvu havi sulu a parlari, nun è pi forza c’havi puru a taliari! (il vescovo deve solo parlare, non è necessario che debba pure guardare!). Don Vincenzo rimase di stucco.

(da “I misteri di una processione” 2015 – isbn 978-88-97886-78-5)